Dal 6 marzo 2018 è in vigore la riforma delle impugnazioni introdotta dal decreto legislativo numero 11/2018, attuativo della legge delega numero 103/2017. Molti punti, tuttavia, restano ancora oscuri, specie per quanto riguarda gli appelli proposti dal pubblico ministero.
Assenza di norme transitorie
In assenza di norme transitorie, infatti, non è chiaro quali conseguenze deriveranno dalla riforma sugli appelli già proposti dal PM fuori dai limiti di cui agli articoli 593 e 593-bis del codice di procedura penale e non ancora decisi né trattati. Per avere delucidazioni non si potrà far altro che attendere le interpretazioni giurisprudenziali sul punto.
I rischi per l’imputato
Pensiamo ad esempio al caso in cui contro una sentenza che ha derubricato un reato è stato proposto appello dal procuratore generale ma non dal procuratore della Repubblica: se si ritenessero ammissibili anche le impugnazioni proposte prima del sei marzo ma non ancora decise l’imputato potrebbe essere assoggettato a pene più gravi di quanto avverrebbe in caso contrario.
Lo stesso dicasi in caso di appello proposto dal PM contro una sentenza con la quale il giudice ha concesso più di una circostanza attenuante ordinaria.
L’appello del PM
Per comprendere meglio di cosa stiamo parlando, ricordiamo che, con riferimento all’appello del pubblico ministero, la riforma ha previsto, con il nuovo articolo 593, comma 1, del codice di procedura penale, che il PM ha la possibilità di impugnare una sentenza di condanna solo nei seguenti casi:
- se essa modifica il titolo di reato,
- se con essa è esclusa una circostanza aggravante a effetto speciale o a efficacia speciale.
Si è inoltre introdotta, con l’articolo 593-bis c.p.p., la possibilità per il procuratore generale di proporre appello solo in caso di avocazione o quando il procuratore della Repubblica abbia prestato acquiescenza del provvedimento, conferendo quindi al primo soggetto una competenza solo residuale rispetto a quella del secondo.